11.12.2013

“Siamo liberi ma non padroni della vita” di C. Magris – 3/3

“Siamo liberi ma non padroni della vita” di C. Magris – 3/3

Pubblichiamo l’ultima di tre parti dell’articolo “Siamo liberi ma non padroni della vita” di Claudio Magris pubblicato su La Lettura (Corriere della Sera) dell’8 dicembre 2013. Speriamo che con questo si possa meglio proseguire anche qui un confronto sui diritti e i doveri del fine-vita.

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Morire è anche un diritto. Non perché si sia «padroni di sé stessi», come recita una rozza parola d’ordine; essere padroni è sempre un abuso, significa trattare gli altri come schiavi e anche trattare sé stessi da schiavi è un’umiliazione, un’alienazione che degrada e opprime il nostro Io.

L’uomo è libero, il che è altra cosa da essere padrone (il quale ad esempio può essere schiavo di sé stesso, delle proprie brame, delle proprie ansie). Libero anche di non voler continuare a vivere. Ma questa autentica libertà non è un’orgogliosa e benpensante rivendicazione di diritti sindacali, come accade troppo spesso quando si parla di eutanasia, di suicidio assistito, con una soddisfatta retorica politically correct, ossia ipocrita, ferocemente sferzata da un dramma dello scrittore svedese Carl-Henning Wijkmark, La morte moderna.

Questa libertà confina e sconfina con la responsabilità, con i rapporti con gli altri; il grande scrittore argentino Ernesto Sábato ha scritto di aver pensato alcune volte al suicidio e di essersene astenuto per non recare dolore agli altri, convinto che non sia lecito far soffrire nessuno, nemmeno un cane. Ma se uno non ce la fa, se il mondo che come Atlante egli regge sulle sue spalle è per lui troppo pesante e lo schianta, lo maciulla? Chi può imporre a un altro di sopportare sofferenze per lui insostenibili? Sofferenze che possono essere anche solo psichiche, ma non perciò meno crudeli e intollerabili. Forse si ha più comprensione per i dolori fisici che per quelli psichici e spirituali. Ma perché un cancro dovrebbe commuovere più di un’ossessione che occupa la mente sino alla disperazione?

Il famoso giuramento di Ippocrate, che obbliga il medico a tutelare a ogni costo la vita e l’integrità del paziente, sembra cadere sempre più in discredito e si invoca che esso sia subordinato alla volontà del paziente, visto che si tratta della mente e del corpo del paziente e non del medico — né, beninteso, dei famigliari del paziente stesso, che non possono sovrapporre la loro volontà alla sua. Ma qual è, quale dovrebbe essere il confine di questa condiscendenza del medico al desiderio di chi gli chiede aiuto? Origene, grande teologo e interprete della Scrittura, si evirò, forse per aver offeso la continenza e per non offenderla più. Se un fanatico della purezza chiedesse al medico di evirarlo per evitargli tentazioni sessuali e pensieri impuri, il medico dovrebbe seguire la sua etica, che gli vieta di castrare il maniaco della castità, o rispettare la sua libera scelta?

Talora nell’aiuto a chi vuole uscire di scena può insinuarsi un’orribile falsa pappa del cuore, la sentimentalità inconsapevolmente cinica di tante benintenzionate persone convinte di essere sensibili; talmente sensibili da non poter vedere accanto a sé alcuna sofferenza e alcun sofferente e profondamente sollevate quando sofferenza e sofferenti vengono tolti o si tolgono di mezzo. Ci sono persone così sensibili, diceva Bernanos, che non possono veder soffrire alcun animaletto e lo schiacciano subito, non per non farlo più soffrire, ma per non vederlo più soffrire.

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