17.12.2013

“Il Paese ai confini della vita” di E. Trevi

“Il Paese ai confini della vita” di E. Trevi

Occorre implorare i nostri rappresentanti: votate secondo coscienza, non secondo direttive di partito o in base a fedeltà occulte.

I titoli delle agenzie, considerati nella loro necessaria brevità, possono provocare intense reazioni emotive senza necessariamente truccare la verità. Così è stato per il voto di due settimane fa della commissione del Parlamento belga che ha dato il via libera all’estensione ai minori della legge che nel 2002 ha depenalizzato l’eutanasia. Oso dire che il colpo, forse, è stato più duro proprio per coloro che ritengono, come chi scrive, che una legge come quella dovrebbe figurare nella giurisprudenza di ogni Paese civile. Non saremo andati troppo oltre? Non ci troviamo ancora una volta di fronte a un corollario insostenibile di un principio che appare giusto? E perché tutto questo accade proprio nel cattolicissimo Belgio, in virtù di un’inedita alleanza (che dalla commissione si trasferirà alle Camere) fra socialisti, liberali e nazionalisti fiamminghi? Ebbene, potrà apparire esotico qui in Italia, ma nei cosiddetti «casi di coscienza» la libertà del singolo parlamentare è assoluta, senza timore di punizioni ed emarginazioni. Insomma, vale proprio la pena di fare un viaggio a Bruxelles, in questo periodo, qualunque sia l’opinione che si nutra in fatto di eutanasia e trattamenti di fine vita.

Prima di partire, però, mi metto a indagare su chi saranno mai i supposti orchi che hanno tirato in ballo i minori in questa che di sicuro è la più spinosa fra le questioni etiche contemporanee. Nel caso avessero torto, non è pur sempre con le persone che hanno torto che vale la pena di parlare? Google mi aiuta subito. Trovo il sito dell’Admd, ovvero «Association pour le droit de mourir dans la dignité», compongo il numero della segreteria e chiedo di parlare con qualcuno. Una gentilissima impiegata, afferrato al volo il mio desiderio di conoscere la situazione e la mia disponibilità a partire, mi mette in contatto con la presidente dell’associazione, Jacqueline Herremans. Le spiego che voglio capire, e non fare pubblicità a un’idea e a un’associazione. Le ricordo che in Italia è sempre stato difficilissimo parlare serenamente di questi argomenti.

Ci diamo un appuntamento per il giorno dopo, a Bruxelles.

Ci incontriamo nel mio albergo molto presto, mentre una timidissima e grigiastra luce del mattino stenta a prevalere sul buio di una notte tempestosa. Ma la città è decorata fino all’inverosimile, in attesa che la folla si riversi nelle strade del centro il primo sabato del periodo natalizio. Madame Herremans è una donna gentile e risoluta. Amai libri di Antonio Tabucchi. Per tutta la sua vita, ha faticato a conciliare la professione di avvocato e la vocazione di attivista a tempo pieno. Nel vasto e accidentato campo dei diritti civili, non c’è battaglia da cui si sia tirata indietro. Ogni tanto si vince, e ogni tanto si perde. Non si nasconde che, negli ultimi dieci anni, tutto è diventato più difficile, le posizioni si sono irrigidite, c’è meno possibilità di confrontare le opinioni Ma il punto decisivo della questione, per lei, è che una legge come quella del 2002 vale esclusivamente per una persona che non tollera più la sofferenza, e che decide di farla finita. Non obbliga nessuno all’eutanasia, e salvaguarda i medici che non vogliono praticarla. Chi vuole proibire, al contrario, impone a tutti un punto di vista che può essere anche accettabile, ma non può, non deve essere la norma. E intorno a questo squilibrio fondamentale che si gioca, non da oggi, la battaglia della laicità.

Mentre iniziava la nostra conversazione, siamo saliti in macchina, diretti a Liegi. Passiamo davanti al Parlamento, dove ogni domenica pomeriggio le associazioni contrarie all’eutanasia si riuniscono per protestare e pregare. Noto che Jacqueline, per una specie di automatismo pienamente comprensibile solo ai veri militanti, ne parla con un certo rispetto. La protesta ha unito tutte le grandi religioni monoteiste. Un comunicato congiunto è stato firmato dal presidente della Chiesa protestante unita del Belgio, e dai suoi colleghi della Chiesa anglicana e del sinodo federale delle Chiese evangeliche, assieme all’arcivescovo di Malines-Bruxelles, al presidente della Conferenza episcopale, al gran rabbino e al metropolita ortodosso di Bruxelles, e dal presidente dell’esecutivo dei musulmani in Belgio. Questi capi religiosi dichiarano apertamente di non poter entrare in una logica «che porta a distruggere le fondamenta della società». L’individuo sofferente, si legge nel documento, ha bisogno di persone e di forze che lo sostengano, mentre l’idea stessa dell’eutanasia è lacerante e disgregante, «finendo per isolare chi soffre, colpevolizzarlo e condannarlo a morte».

Parole che vanno meditate col rispetto che impongono; ma bisogna aggiungere che in Belgio, a quanto sembra, la questione dell’allargamento ai minori della legge del 2002 non ha suscitato lo scalpore che immaginavo. Per quello che valgono questi sondaggi empirici, me ne sono reso conto chiedendo direttamente alle persone che ho incontrato, e leggendo «Le Soir», il quotidiano francofono più autorevole. Tanto per cominciare, non si tratta esattamente di «bambini», ma di giovani con una personalità già formata, e un’idea delle loro responsabilità e dei loro diritti. Credo inoltre che a rendere meno tempestoso il dibattito, come sempre accade, collabori anche lo scarso numero di casi effettivi.

Siamo diretti a Liegi, sotto una gelida pioggerella nordica, per assistere a una sessione di un corso di formazione organizzato dall’Admd e destinato a medici, infermieri e psicologi. Non è un corso gratuito, ma l’auditorium dell’Hópital de la Cittadelle è stracolmo. La sensazione, per me, è quella di aver cominciato a studiare la guerra su internet, e di essere arrivato in prima linea: fra gente, insomma, che nella materia oscura del dolore e della morte ha letteralmente le mani in pasta. Ma se questa è una guerra, non si può combattere solo a colpi di leggi e protocolli. E per questo motivo che ai seminari partecipano filosofi, teologi, studiosi del diritto. Approfittando di una pausa, dopo avere ascoltato la sua relazione, abbordo un giovane avvocato, Gilles Genicot. E un grande ammiratore della tradizione giuridica italiana, avrebbe voluto perfezionarsi a Bologna. Acconsente volentieri a chiarirmi alcuni punti del suo discorso. La sua convinzione è che il concetto della dignità della persona è molto complesso, e richiede la presenza di molteplici fattori. E dunque, anche se può apparire mostruoso, «la pura e semplice constatazione biologica della vita non è sufficiente». Si deve accompagnare al diritto di guardare in faccia la propria fine, «in qualità di uomo libero e sofferente». Che è una cosa ben diversa sia «dall’idea di fare sempre ciò che si vuole», sia da quella, opposta ma complementare, di subire un modello di comportamento imposto dall’esterno (come quando ci si sente dire «comportati da uomo» di fronte al dolore). E da questo punto di vista che, secondo Genicot, dichiarare «incapace» un individuo di sedici anni è una decisione inaccettabile.

Un punto di vista non distante della relazione d’apertura di stamattina, affidata a Marie-Luce Delfosse, docente di Filosofia all’Università di Namur ed esperta di bioetica. L’eutanasia è una decisione così estrema da non poter essere confusa con nessun’altra pratica medica, comprese le «cure palliative». Tanto da invertire la stessa direzione fondamentale del rapporto fra medico e paziente, nel quale è il primo che propone la cura, e il secondo che acconsente. Nel caso di chi decide di non farcela più, invece, è il paziente che decide e propone. Alla fine di ogni relazione, in sala si accende un piccolo dibattito. Le mani alzate per chiedere la parola sono sempre tante. Io non sono venuto fino a qui per collaborare alla causa dell’eutanasia, ma per capire un punto di vista che rischia di essere non compreso e in ultima analisi demonizzato. Ma non posso mettere a tacere una sensazione di invidia, per come si ragiona di queste cose qui in Belgio rispetto a ciò che si fa nella chiassosa e insolente Italia, dove si sono costrette migliaia di coppie a un vergognoso esodo verso la Spagna solo per usufruire di una fecondazione assistita degna di questo nome. E dove, per ritornare alla gravità del nostro tema, un uomo politico generoso e disinteressato come Lucio Magri è dovuto scappare in Svizzera, come un delinquente, quando una grave depressione ha stroncato la sua voglia di vivere.

Si può pensare ciò che si vuole, essere laici o credenti, umanisti o scientisti. Tutti brancoliamo nell’ignoranza, e in ogni idea espressa forse c’è una dose fatale di errore che solo chi verrà dopo di noi sarà in grado di correggere. Ma se una patria è anche il luogo dove ci si aiuta a vicenda a fronteggiare le questioni ultime e decisive della nostra esistenza, ebbene noi dobbiamo renderci conto che questa non è una patria ma un’ipocrita matrigna, che fa in modo che chi se lo può permettere risolva altrove i suoi problemi, abbandonando tutti gli altri a un destino incomprensibile e crudele.

Non ci resta che implorare i nostri rappresentanti: fate come in Belgio, votate secondo la vostra coscienza, e non secondo le orride direttive di un partito, o ancora peggio in base a fedeltà occulte, inconciliabili col vostro ruolo.

ARTICOLO DE "LA LETTURA – CORRIERE DELLA SERA" DEL 15 DICEMBRE 2013, PAG. 20/21

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