21.05.2020

Nostra è la vita. Nostra è la morte.

Nostra è la vita. Nostra è la morte.

Pubblichiamo a seguire un estratto della Postfazione del romanzo di G “La mia morte” (Tempesta Editore, 2019)

La nostra vita è più che nostra: la nostra vita siamo noi. Eppure Stato e Chiesa ritengono di dover negarci il diritto di disporne anche quando ciò non leda gli interessi di alcuno, decidendo loro di fatto quanta sofferenza si deve patire prima di morire. La Chiesa afferma di difendere la “sacralità della vita” perché “appartiene a Dio”, mentre lo Stato cavilla sostenendo la speciale condizione del diritto alla vita “presupposto di ogni altro diritto”. Due motivazioni, una metafisica e l’altra di logica astratta che hanno entrambe l’effetto di sottrarre a ogni possibile discussione la questione: ciò che è logico lo sarà sempre e ciò che è metafisico è racchiuso nell’empireo delle verità non controvertibili ma non verificabili. 

La storia ci insegna invece che le norme sono funzionali a un determinato assetto di interessi. Alla considerazione sacrale o supremazia della vita, si può opporre la millenaria esaltazione di martiri e patrioti: si è osannati se si muore per lo Stato e la Chiesa. Il nostro inno nazionale ci vuole “pronti alla morte”, la Chiesa santifica chi muore con sevizie in suo nome.

La storia ha macinato e macina morti da sempre e le scelte di governo, infatti, sono quasi sempre scelte di vita e di morte: si decide di investire in armamenti piuttosto che in sanità e centinaia di persone muoiono nell’arco degli anni; si costruisce un’autostrada ed è già preventivabile un certo numero di morti nell’esecuzione dei lavori. 

A prescindere dalla mera possibilità statistica che le scelte politiche incidano sulla vita di persone non individuate e la cui morte non viene voluta, lo Stato può ucciderci legittimamente con precisa volontà diretta contro una specifica persona per ragioni di ordine pubblico, anche quando non vi sia rischio per la vita di altri.

L’art 2 della CEDU (Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali) dopo aver proclamato che “nessuno può essere intenzionalmente privato della vita”, aggiunge: “La morte non si considera cagionata in violazione del presente articolo se è il risultato di un ricorso alla forza resosi assolutamente necessario: […] (b) per eseguire un arresto regolare o per impedire l’evasione di una persona regolarmente detenuta; (c) per reprimere, in modo conforme alla legge, una sommossa o un’insurrezione”. Il codice penale all’art. 53 prevede che “non è punibile il pubblico ufficiale che, al fine di adempiere un dovere del proprio ufficio, fa uso ovvero ordina di far uso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica, quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza all’Autorità […]”. 

Di vite messe a rischio non si parla affatto nei casi indicati: quindi, se si può uccidere qualcuno per difendere beni diversi dalla vita, vuol dire che ci sono valori di fronte ai quali la vita di un individuo cede il passo: ciò che ci dicono queste norme, infatti, è che quando è a rischio l’ordine pubblico, quando viene messa in seria discussione l’autorità dello Stato, lo Stato può difendersi uccidendo quindi la sua sopravvivenza vale più della vita del singolo. Se lo Stato può sacrificare la vita del singolo, vuol dire che è disponibile per lui, e – se lo è per lui – come è possibile che non lo sia per chi ne è titolare?

Si dice che se pur fosse vero che la vita è in astratto disponibile, tale diritto non sarebbe esercitabile proprio perché limitato dal prevalente interesse pubblico che in effetti può e deve limitare i diritti individuali in funzione di obblighi sociali. Dobbiamo però chiederci se gli obblighi verso lo Stato, i concittadini, i familiari, gli altri in genere, abbiano un limite e se esista un momento in cui un individuo cessi di avere obblighi e riprenda in pieno la disponibilità del diritto alla vita di cui è titolare. Non si deve dimenticare che titolari del diritto alla vita siamo noi  singolarmente e gli obblighi sociali limitano un diritto che ci appartiene

Quando manchino interessi pubblici alla sopravvivenza, perché mai il diritto sulla propria vita non dovrebbe essere liberamente esercitabile da ciascuno? 

Qual è l’interesse pubblico che dovrebbe limitare il mio diritto di scegliere di smettere di soffrire, quando sono in un letto senza altra prospettiva che una sofferenza protratta nel tempo fino alla morte? Si deve affermare con forza che in questa situazione il diritto di ciascuno sulla propria vita prevale su pretesi astratti obblighi sociali.

Il divieto dell’eutanasia è meno una questione di umanità nei confronti dei singoli che una questione di potere. Nell’accanimento con il quale il dispositivo di controllo integrato Stato-Chiesa si oppone a una ragionevole soluzione della questione, non si può vedere altro che il rifiuto di trattare da pari il singolo: la supremazia non è tale se viene meno anche in un solo momento.

Ammettere che nostra è la vita, e quindi nostra è la morte, equivale a capovolgere secolari rapporti di forza costringendo il potere sovrano ad abdicare alla più antica delle sue prerogative: il potere di vita e di morte. Una concezione arcaica che resiste anche se non trova più il coraggio di palesarsi, ma che incide ancora sulle nostre vite rallentando l’effettività del riconoscimento pieno dei diritti individuali pur se da tempo scritti nelle carte costituzionali. L’art 2 della Costituzione impone alla collettività di tutelare i diritti fondamentali della persona, per primo il diritto alla vita di ciascuno. Quando manchi un interesse pubblico o sia marginale, il diritto soggettivo alla vita, di poterne disporre, non può trovare limiti anche quando questo significhi che intendiamo cessare di farne uso. La collettività, quindi, non può girare le spalle a chi abbia assolto tutti i suoi doveri sociali e chieda assistenza nella sua scelta di smettere di soffrire: se è espressione di un diritto fondamentale, la comunità tutta deve collaborare per attuarlo mettendo a disposizione la sanità pubblica. Abbiamo il dovere di dare dignità alla vita e quindi alla morte di chi soffre senza speranza. La dignità di un individuo consiste nel non considerarlo oggetto di decisioni, ma soggetto decidente: dare dignità alla morte significa dare centralità alla volontà di chi soffre perché sua è la sofferenza, sua la vita e sua è la morte.

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