10.10.2016
Articolo di Michele Farina sul Corriere della Sera – Nel mezzo del suo 85esimo compleanno, «più vicino al terminal delle partenze che a quello degli arrivi», Desmond Tutu chiede per sé il diritto di decidere come e quando andarsene da questo mondo. L’arcivescovo emerito anglicano di Città del Capo e Nobel per la Pace 1984, l’amico di Nelson Mandela che tutti in Sudafrica chiamano «The Arch», ora «più che mai sente» la necessità di «prestare la sua voce» alla causa della «morte dignitosamente assistita».
La gioia e la fine
Un occhio alla festa, l’altro alla cartella clinica: Tutu è reduce da uno dei suoi sempre più frequenti tour in ospedale, dove anche questa volta dopo un piccolo intervento chirurgico ha rintuzzato «le infezioni» che minano da qualche tempo la sua salute. Nessuno parla di una precisa malattia (vent’anni fa The Arch fu curato per un tumore alla prostata). È lui stesso a descriversi più vicino all’ultimo «gate». E così, mentre nel giorno del compleanno i ragazzi della sua Fondazione distribuiscono dolcetti nel centro di Città del Capo in nome della campagna #ShareTheJoy, assieme alla gioia The Arch ha deciso di condividere le sue riflessioni in «fine vita».
Il diritto di scegliere
Non c’è contraddizione tra l’inno alla gioia e la via dell’eutanasia, lascia intendere Tutu dalla tribuna del quotidiano americano The Washington Post: «Per tutta l’esistenza ho avuto la fortuna di lavorare appassionatamente per la dignità dei viventi. Così come ho lottato per la compassione e la giustizia nella vita, allo stesso modo credo che i malati terminali debbano essere trattati con giustizia e compassione davanti alla morte». The Arch non usa giri di parole: «I morenti dovrebbero avere il diritto di scegliere come e quando lasciare la Madre Terra». Tutu ricorda le recenti leggi sulla «dolce morte» entrate in vigore in California e in Canada. Ma sottolinea come «a migliaia di persone in tutto il mondo venga negato il diritto di morire con dignità».
Ho cambiato idea
Su questo tema, l’incrollabile campione dei diritti umani ha cambiato idea da poco. «Per tutta la vita mi sono opposto all’idea della morte assistita. Due anni fa dissi che ci avevo ripensato. Ma sull’eventualità che io stesso potessi farvi ricorso, ero rimasto sul vago. “Non mi importa”, dicevo allora. Oggi che sono più vicino al terminal delle partenze, lo affermo con chiarezza: ci sto pensando, sto pensando a come vorrei essere trattato quando verrà l’ora».
La sentenza
Il Sudafrica, che vanta una delle Costituzioni più avanzate del mondo, non ha una legge sulle scelte di fine vita. Nell’aprile 2015 un tribunale ha garantito a un malato terminale il diritto di morire, ma il Parlamento non ha colto questa occasione per discuterne in maniera approfondita. Anche il sasso lanciato da Tutu non sembra aver fatto grande rumore nello stagno dell’opinione pubblica, dominata com’è da altre emergenze e ricorrenze: le manovre del corrotto presidente Jacob Zuma, il declino dell’Anc, le storie di mazzette che avvolgono un ex pupillo di Nelson Mandela, Tokyo Sexwale; le proteste a petto nudo delle studentesse della Wits University contro l’aumento delle tasse scolastiche; l’economia sudafricana che non riparte, la violenza sulle donne…
Senza voce
La dignità dei viventi è minacciata ogni giorno nella Nazione Arcobaleno, a oltre vent’anni dalla fine dell’apartheid. L’uomo che ha spiazzato i neri in pieno regime dell’apartheid («siate buoni con i bianchi, hanno bisogno di riscoprire la loro umanità», disse alla cerimonia del Nobel), il prete che ha inventato la meravigliosa definizione di Rainbow Nation, il vecchietto che negli ultimi anni ha tuonato mentre i potenti di turno imbrattavano la bandiera di Mandela, oggi si ritrova abbastanza solo a interrogarsi sulla dignità dei morenti. D’altra parte questa è sempre stata la sua specialità, come diceva Madiba: dare voce a chi non ha voce. Con un occhio ai dolcetti della vita, l’altro alla cartella clinica.