04.03.2014

L’ultimo viaggio degli italiani in Svizzera

L’ultimo viaggio degli italiani in Svizzera

Le associazioni che lottano per il diritto al fine vita li chiamano ?esuli del suicidio?. Per farlo devono emigrare all?estero, dove la morte volontaria assistita è legale. Mentre nel nostro Paese le proposte di legge per regolamentare il fine vita sono ferme al palo.

Articolo pubblicato su l’Espresso, di Arianna Giunti – L’ultimo desiderio di Ettore è una tavoletta di cioccolato fondente. La assapora mentre guarda la superficie immobile del lago, un pomeriggio di gennaio, a ottocento chilometri da casa. Poi si fa riaccompagnare nella sua stanza, dall’impianto stereo parte una melodia: la sonata numero 3 di Schumann. L’ultima musica che ascolteranno le sue orecchie. Perché Ettore, consumato da un tumore al pancreas, ha deciso che esattamente quel giorno, a quell’ora, in quel luogo, i medici gli prepareranno un cocktail letale che lo porterà alla morte in sette minuti.

Le associazioni che lottano per il diritto al fine vita li chiamano “esuli del suicidio”. Per interrompere la propria vita, devono emigrare all’estero, per esempio in Svizzera, dove la morte volontaria assistita è legale dal 1942.

I numeri parlano chiaro: ogni anno i malati terminali che decidono consapevolmente di violare la legge italiana per garantirsi una morte rapida e indolore sono in continuo aumento. Secondo l’associazione Exit Italia – che si batte da sempre contro l’accanimento terapeutico per il diritto all’eutanasia – solo nel 2013 sono cresciuti del 34 per cento. Se nel 2012, i casi accertati erano almeno 30, nell’anno appena trascorso sono stati più di cinquanta. In pratica, più di quattro al mese. Mentre si è registrato un aumento vertiginoso di persone iscritte all’associazione che hanno iniziato a informarsi sulla procedura dell’eutanasia: 380 nuove iscrizioni nel 2013 con un aumento del 20% nei primi due mesi del 2014 rispetto allo stesso periodo di un anno fa.

Gli italiani che si rivolgono direttamente alle strutture svizzere senza passare per l’intermediazione delle associazioni del proprio Paese, sottoponendo il loro caso ai medici elvetici per essere autorizzati al suicidio assistito, sono in media 200 all’anno. Non per tutti, però, la trafila si conclude con la “dolce morte”. Qualcuno, alla fine, rinuncia. Qualcun altro – quasi il 40% – vede invece la propria domanda respinta al mittente.

PROCEDURE SEVERE 
Attualmente le associazioni svizzere che praticano l’eutanasia legalizzata sono tre: la Dignitas di Zurigo, la Ex International di Berna e la Life Circle di Basilea, l’ultima nata. Alle loro porte bussano in media 1.400 pazienti all’anno, provenienti da tutta Europa. Sono soprattutto tedeschi, inglesi, e francesi. Gli italiani, che fino a pochi anni fa rappresentavano solo l’1,24%, ora sono in rapido aumento, tanto che la Dignitas ha più volte espresso il desiderio di aprire una filiale anche nel Canton Ticino. Si tratta di strutture immerse nel verde, dove lavorano decine di specialisti. Sono proprio loro a valutare i pazienti caso per caso, decidendo se la strada della “morte dolce” sia percorribile oppure no.

Funziona così: un’equipe di medici studia di volta in volta le cartelle cliniche dei malati che vorrebbero sottoporsi al suicidio assistito, prendendo in esame solo quelli affetti da malattie incurabili. Se la situazione del paziente è disperata, e non esistono altre possibilità, viene dato l’ok all’eutanasia.

A questo punto al malato spetta il compito più difficile: scegliere il giorno in cui si vuole morire. La procedura è precisa e rigorosissima. Tutto deve essere deciso dal paziente, che non può essere influenzato in nessun modo dal mondo esterno. La magistratura elvetica, infatti, potrebbe decidere di intervenire nel caso ci sia il sospetto che la morte sia stata provocata per interesse personale ed economico da parte di familiari e che, quindi, ci sia stata un’istigazione al suicidio.

Proprio per questo, una volta che il paziente arriva nella clinica, i medici svizzeri dopo averlo visitato sono obbligati a tentare di fargli cambiare idea. Se il malato terminale è deciso ad andare avanti, dovrà essere lui – materialmente – a compiere il gesto.

COCKTAIL LETALE 
Ma come avviene, esattamente, la morte volontaria assistita? Il tutto dura non più di un quarto d’ora. Il paziente dovrà scegliere come trascorrere le sue ultime ore e – se lo vorrà – potrà decidere quale musica ascoltare nei suoi ultimi minuti di vita. A quel punto gli verranno somministrate due pasticche anti-vomito, quindi – se il malato è ancora deciso ad andare avanti – dieci minuti dopo viene preparato un composto chimico a base di pentobarbital di sodio, un barbiturico molto potente, che lo farà cadere in un sonno profondissimo in tre minuti. Dovrà essere lui stesso a prendere il bicchiere con le proprie mani e a deglutire. Nessun altro potrà somministrarglielo. Le dosi sono talmente massicce, spiegano i medici, che l’arresto cardiaco arriverà entro sette minuti. In seguito il corpo sarà cremato, deposto in un’urna cineraria e inviato ai parenti.

Non tutti i pazienti, negli ultimi istanti della loro vita possono contare sull’amore e sul conforto della propria famiglia. “I parenti dei malati terminali che accompagnano i loro cari a morire per la legge italiana stanno commettendo un reato: stanno infrangendo l’articolo 579 del codice penale che prevede una condanna fino ai 12 anni per omicidio del consenziente”, spiega a l’Espresso il presidente di Exit Italia, Emilio Coveri. “Chi decide di correre comunque questo rischio”, aggiunge Coveri, “deve adottare tutte le precauzioni del caso e non può alloggiare nella stessa struttura del malato”.

Né questo né il sostanzioso costo di tutta la procedura (dai 5mila agli 8mila euro) sembrerebbero però scoraggiare i malati terminali. “Stiamo ricevendo in media 30-35 telefonate a settimana di persone che si informano sul suicidio assistito”, conferma Coveri.

LE STORIE 
Non tutti, però, arrivano fino in fondo. Alla Dignitas di Zurigo raccontano di ricevere spesso richieste insolite, di persone che sono ritenute tutt’altro che incurabili, e che decidono di farla finita solo per sofferenza emotiva e solitudine. Casi che non vengono neanche presi in considerazione.

Anche se qualche eccezione c’è: come quella di un’anziana coppia di canadesi che alcuni anni fa si è presentata davanti ai medici svizzeri per chiedere di morire insieme. Lui era affetto da una patologia cardiaca che non lasciava scampo, lei era perfettamente sana. Ma solo il pensiero di continuare la sua esistenza senza il compagno di una vita la faceva impazzire di dolore. Il fondatore dell’associazione Ludwig Minelli ha deciso di sottoporre il loro caso alla corte svizzera. Ma il destino è stato più veloce della legge: la donna si è ammalata di cancro e se n’è andata ancora prima del marito.

Poi ci sono quelli che, all’ultimo momento, cambiano idea. Come Adriano, 68 anni, napoletano, che ha bussato alla porta della clinica di Berna un pomeriggio di due anni fa. Colpito da una grave malattia neurodegenerativa, i medici gli avevano diagnosticato al massimo un anno di vita, fra tormenti atroci. La data della sua “dolce morte” era già stata fissata, e così quel giorno si è presentato, puntalissimo, deciso a portare avanti il suo proposito. La sua famiglia era stata informata, ma lui aveva preferito che i suoi cari aspettassero le ceneri a casa. Dopo un primo colloquio con gli specialisti, Adriano ha chiesto di poter guardare l’ultimo tramonto della sua vita. E lì, davanti a un cielo arancione da togliere il fiato, tutto ad un tratto ha cambiato idea: “Riportatemi a casa, voglio morire guardando negli occhi mia figlia”.

Un capitolo a parte meritano invece i pazienti affetti da malattie mentali. Il caso Lucio Magri, in questo, ha fatto scuola. Settantanove anni, malato di depressione, il fondatore de “Il Manifesto” e leader storico della sinistra ha deciso – nel 2011 – di interrompere la propria vita in una clinica svizzera. Nel febbraio di quello stesso anno, infatti, la Corte suprema elvetica aveva equiparato i gravi disturbi mentali a quelli fisici, aprendo la strada al ricorso del suicidio assistito anche per questo tipo di patologie. Nella sentenza si sostiene appunto che “seri disordini mentali, incurabili e permanenti, possono causare sofferenze simili a quelle fisiche”.

Le grane penali, però, sono dietro l’angolo. Ogni paziente infatti ha l’obbligo di farsi accompagnare da uno psichiatra che attesti le sue reali condizioni psichiche. E neanche questo mette in salvo chi pratica l’eutanasia da possibili denunce: come è successo alcuni anni fa nel caso di un cittadino originario dell’Abruzzo residente a Friburgo, anche lui affetto da una malattia mentale. La sua famiglia ha citato in giudizio l’associazione svizzera che lo aveva aiutato a togliersi la vita per istigazione al suicidio.

TESTAMENTO BIOLOGICO 
Numeri in continuo aumento si registrano in tutta Italia anche sul testamento biologico. Negli ultimi dieci anni i tentativi di ottenere anche nel nostro Paese una legge che regolamenti il fine vita sono miseramente caduti nel vuoto. Per l’esattezza, sono state presentate 11 proposte di legge bipartisan, mai neppure discusse. Eppure di fronte a questo immobilismo della politica i cittadini italiani non sono rimasti a guardare: solo dall’Associazione Luca Coscioni fanno sapere di aver ricevuto, fra moduli cartacei e online, 10mila testamenti biologici negli ultimi cinque anni. Mentre il sito di Exit Italia registra contatti quotidiani per scaricare il modulo, dove è inserito un passaggio anche sul suicidio assistito.

Sorprendente, poi, il successo che ha avuto la nascita del registro del testamento biologico. Finora ad aver aderito all’iniziativa sono stati un centinaio di Comuni in tutta Italia. In testa c’è Milano, che ha attivato lo sportello lo scorso novembre all’assessorato delle Politiche sociali. Ancora prima che aprisse i battenti, contava già 120 persone in lista d’attesa. Ora, in meno di tre mesi, gli iscritti sono saliti a 350 con oltre un migliaio di richieste di informazioni.

La mancanza di una legge, certamente, rende tutto più difficile. E anche compilare un foglio che metta nero su bianco la rinuncia all’accanimento terapeutico di fronte a malattie incurabili o a stati vegetativi permanenti potrebbe essere del tutto inutile.

Lo spiegano dalla Fondazione Umberto Veronesi, la prima a permettere ai cittadini di reperire il documento: “Si tratta di un foglio di carta dove sono scritte le ultime volontà sul proprio fine vita. Ogni persona deve tenere una copia per sé e consegnarne un’altra ad un fiduciario. Non avendo valore legale, nessuno ovviamente può garantire che queste volontà vengano rispettate. Tutto è a discrezione del personale medico e dei familiari del malato, che potrebbero opporsi”. “Oggi sono stati fatti molti passi avanti su questo tema, e questo testamento ha acquisito un valore in più rispetto a qualche tempo fa”, spiegano ancora dalla Fondazione Veronesi, “però resta il fatto che la decisione finale spetta ad un medico. Che, se decidesse di staccare la spina, rischierebbe pur sempre una denuncia penale”. E così la volontà dei malati continua a essere ignorata.

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