01.12.2015
Il dolore di una figlia che ha assistito la madre malata. E quelle domande: “Perché prima di spirare ha dovuto soffrire? Non sto parlando di una sofferenza che poi condurrà ad una gioia, come accade nel parto ma solo di una sofferenza fine a se stessa. Il diritto alla vita, non include lo stesso diritto alla morte? E poi, perché le convinzioni di soggetti contrari all’eutanasia devono riguardare anche chi la pensa in maniera differente? Dov’è il diritto all’autodeterminazione?”
Da anni seguo la vostra pagina Facebook, specialmente dal 2010 quando a mia madre venne diagnosticato un carcinoma mammario. Non si trattava di un tumore raro ma lei trovò il coraggio di farsi visitare quando ormai era al terzo stadio di quattro. Il primo ciclo di chemio fu efficace: la massa si ridusse notevolmente, potettero operarla e successivamente si sottopose alla radioterapia ed alla terapia ormonale.
Nel 2012 purtroppo il tumore si ripresentò ma lei non si perse mai di spirito e continuò a combattere la sua battaglia, ricordo ancora le infermiere del reparto di oncologia guardarla con ammirazione per la sua determinazione nel voler sconfiggere la malattia. Purtroppo però, il tumore era andato in metastasi e i diversi cicli di chemio non hanno sortito l’effetto sperato, inoltre a causa asportazione dei linfonodi, le si era formato un edema che le premeva sulla scapola e l’ascella che le rendeva difficoltosi i più banali gesti quotidiani, come vestirsi. Ma voleva vedermi laureata e nonostante l’affanno continuò a lavorare e sostenermi. Nell’estate del 2014 la situazione è precipitata: colpita da febbre la ricoverammo, ricordo ancora le sue parole: "quando hai finito al negozio, va a studiare che a settembre hai l’esame e vedi di fare qualche bottiglia di salsa che poi quest’inverno come la condisci la pasta?!". Durante la degenza, inviai la sua cartella clinica ad una struttura oncologica di Milano, per vedere se ci fosse una strada ancora percorribile e mi consigliarono di farla sottoporre a radioterapia per le metastasi che avevano toccato una vertebra, una costa e la scatola cranica ma purtroppo arrivai troppo tardi. Il giorno in cui dovevano sottoporla alla tac, iniziò a delirare e ad avere dolori tali da richiedere morfina continuativamente. Peccato che prima di somministrarle la morfina passò una notte più brutta della sua vita: il protocollo per l’introduzione della morfina richiede che solo il medico di reparto possa avviarlo. Fu così che mia madre passò una notte intera ad urlare per i dolori e a preoccuparsi del fatto che io avrei visto la sua sofferenza. All’ennesima chiamata del medico di turno, lo implorai di porre fine alla sua sofferenza in qualsiasi modo, mi sarei macchiata di omicidio pur di non vederla contorcersi dal dolore e stringere le sbarre del letto. Solo il giorno successivo le diedero la morfina. Morì due giorni dopo, senza neanche sapere chi fosse.